Ieri mia figlia si è buttata a terra e mia moglie è uscita dalla stanza.
Quando le ho chiesto perché mi ha detto: “me l’hai detto tu di ignorarla quando fa i capricci”.
Ok, ma in questo caso non erano “capricci”.
Educare significa permettere ai nostri figli di potersi adattare all’ambiente nel modo più efficace e migliore possibile.
Ogni volta che facciamo una cosa agiamo un piano finalizzato a ritrovare l’equilibrio psico-fisiologico con i comportamenti che conosciamo già e che hanno funzionato in passato.
Se ho sete so che devo trovare l’acqua e metterla in bocca; ma non solo, ad esempio, qualcun altro sa che se si è arrabbiati basta urlare qualche secondo contro qualcuno e la rabbia scende.
Ecco, i nostri figli fanno esattamente le stesse cose. Anzi, è proprio quando sono piccoli che imparano a reagire al mondo cercando di ottenere la massima ricompensa emotiva col minimo sforzo. Peccato che ad un certo punto quello che funzionava a casa, nella vita vera non funziona più e se urlano ai passanti, i passanti li lasciano semplicemente sbattere facendogli credere che sono più forti e a Palermo ne sappiamo qualcosa.
Torniamo ai comportamenti problematici dei nostri figli.
Ognuno di noi, tende a considerare problematico ogni comportamento che ci disturba. Questo è spesso vero, ma è solo una sensazione secondaria. In realtà un comportamento è problematico quando per ottenere qualcosa si fa qualcos’altro di inappropriato rispetto all’età e alle possibili strategie.
Se piango a tre mesi perché ho fame va bene; se piango a tre anni per lo stesso motivo invece non va più bene. Avrei già dovuto imparare a dire: “ho fame”.
Allora, perché mia figlia si è buttata a terra, sdraiata a pancia in su, immobile ed in silenzio?
Giocava con le costruzioni e quando Valentina le ha detto di conservarle e di raccogliere quelle sul pavimento, allora si è buttata a terra. Dopo, Valentina è uscita dalla stanza.
Greta ha vinto con un comportamento problematico.
Per gli psicologi, ogni comportamento problematico esprime una funzione e le funzioni possibili sono solo quattro. No mille, quattro!
Ogni volta che un nostro figlio fa qualcosa che a noi non sta bene, dovremmo prima di tutto capire qual è la funzione del suo comportamento e se sarebbe opportuno insegnargli qualcosa di migliore per fargli raggiungere lo stesso scopo. Questo significa educare.
Allora, le funzioni sono 4:
- Fa una cosa perché vuole una cosa;
- fa una cosa perché NON vuole una cosa;
- fa una cosa per avere la nostra attenzione;
- fa una cosa perché gli piace semplicemente farla per ottenerne piacere o sollievo.
Solo se ne comprendiamo la funzione, possiamo agire efficacemente per far sì che la volta successiva il comportamento indesiderato non venga ripresentato.
Allora, perché mia figlia di due anni, si è sdraiata sul pavimento? Perché NON voleva fare una cosa: raccogliere le costruzioni.
Cosa ha fatto mia moglie? È uscita dalla stanza e poi quando è rientrata ha raccolto le costruzioni. Cos’ha imparato Greta? “La prossima volta che non voglio fare una cosa mi butto a terra. Favoloso. Facile”.
Quando invece è utile ignorare un comportamento o uscire dalla stanza? Magari se Greta si buttava a terra per farsi prendere le costruzioni e cominciare a giocare, no finire di giocare. Cosa avrebbe imparato Greta in questo caso? Se voglio una cosa, buttarmi a terra o piangere o gridare non funziona. Cosa posso fare la prossima volta di più utile per raggiungere il mio scopo?
Sembrano banalità, in realtà, da genitori è facile commettere ingenuamente questi piccoli errori. Capita a tutti e non per questo significa educare male i propri figli.
Non sottovalutiamo inoltre che spesso accontentiamo i nostri figli e li facciamo smettere di piangere per stare bene noi che ci agitiamo inutilmente. Non dimentichiamo che i bambini sono geneticamente determinati a farci tenerezza e noi ormai soffriamo anche nel dirgli: “ora vai in castigo”.
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