Ormai ogni giorno vedo qualcuno che mi dice: “ho visto la puntata”. Molto spesso scopro che gli ha fatto schifo. Certe volte invece piace.

Ecco, anche secondo me fanno schifo. Non scherzo. Ma se a te piacciono, a meno che non ti faccio antipatia, e può capitare, per favore, metti un like al video, alla pagina facebook e magari ti iscrivi pure al canale youtube.

In ogni caso, stavolta sto provando a dare un senso alle puntate precedenti. Così come abbiamo fatto con la sesta.

Parleremo di Commitment Organizzativo

cioè il tipo di coinvolgimento emotivo che portiamo nel nostro lavoro perchè anche la motivazione e i nostri risultati dipendono anche da questo.

Tu, te lo ricordi che lavoro volevi fare quando eri piccolo? E ora, che lavoro vorresti fare. Quello che fai, invece, e quello che avresti voluto fare o quello che vorresti fare davvero?

Fammi capire.

Com’è che ad un certo punto facciamo il nostro lavoro? Come ci siamo finiti? Qualcosa è andato storto? Anche perché anche se non siamo il nostro lavoro, con il nostro lavoro ci abitiamo insieme.

Sei tra quelli che non cambierebbero mai lavoro o tra quelli che non lo vorrebbero fare un secondo di più?

Quando ero un po’ programmatore certe volte pensavo che avrei voluto farlo anche da grande, e certe volte da grande penso che vorrei fare l’astronauta. Non scherzo. Eppure secondo statistiche avrei potuto facilmente lavorare in banca e fare il consulente finanziario.

Sono rarissime le persone che da grandi fanno il lavoro che avrebbero voluto fare da bambini, non credo che mia figlia riesca a diventare davvero una fatina. E non sono altrettanto rare le persone che da grandi si rendono conto che se avessero fatto delle scelte diverse oggi vivrebbero un presente maggiormente gratificante. Oggi, per me, decidere di fare l’astronauta sarebbe davvero troppo tardi.

Ma torniamo a noi, menomale che fare lo psicologo seriale mi piace davvero troppo. Mannaggia.

E allora, come mai sono diventato uno psicologo? E cosa ancora più assurda, come fai riesco a fare lo psicologo a Palermo?

Poco fa ti dicevo che probabilmente sarei potuto finire a lavorare in banca e ora arriviamo a capire perché.

Molto spesso, sentiamo al telegiornale che in Italia c’è un problema di mobilità sociale. Praticamente, i bambini, si ritrovano da grandi a fare una vita molto simile a quella dei loro genitori. Sentiamo che i figli dei dottori sono dottori, i figli dei muratori sono muratori e i figli dei notai sono notai.

A questa cosa qui si attribuiscono parecchie responsabilità sociali e collettive. In parte le condivido e in parte no. Anche perché una società dovrebbe permettere ad ognuno di noi di poter esprimere il proprio potenziale permettendoci di raggiungere le migliori gratificazioni possibili.

Ma a parte questo, secondo me vengono trascurate alcune responsabilità che partono prima di tutto dall’individuo e prima di arrivare in società passano dalla famiglia.

Ormai sappiamo che siamo il risultato di tutte le nostre esperienze e un mix di tutte le persone che abbiamo frequentato maggiormente.

Quando io ero piccolo, il sabato sera a casa mia venivano i colleghi di mio padre. Oppure noi andavamo da loro. Quando diventiamo grandi, a parte qualche amico di infanzia e vecchio compagno di scuola, i nostri amici sono i nostri colleghi. E mi pare ovvio quindi che non era raro che io frequentassi bancari e ne venissi inconsapevolmente influenzato. Tutt’oggi praticamente Simone e Gioacchino li considero praticamente parenti. E per questo che ad un certo punto, senza rendercene conto, possiamo ritrovarci a fare il lavoro che fanno o facevano i nostri genitori.

Conosco un mare di gente che lavora in banca, magari sarebbe bastato che mi laureassi in economia e tutta sta gente mi avrebbe in qualche modo aiutato, volontariamente o senza accorgersene a facilitarmi il mio inserimento lavorativo.

D’altro canto mio padre non mi ha mai incoraggiato in tal senso e quindi a me l’idea di fatto non mi ha nemmeno mai sfiorato il cervello.

Ma sta cosa, quanto influisce quindi nella vita di ognuno di noi? Io mi immagino il sabato sera a casa delle persone. Chi ricevono i bambini piccoli se non i colleghi/amici dei loro genitori che ad un certo punto diventano anche i loro veri primi amici? A casa mia ci sono spesso psicologi, mamma mia. E per questo a casa dei medici, ci sono medici e probabilmente anche per questo i figli diventano dottori. L’influenza del sabato sera è più forte della televisione. Anche perché il confronto è diretto e di prima mano.

Ognuno di noi idealizza i nostri genitori e gli amici dei nostri genitori. Almeno fino a quando diventiamo grandi e ci apriamo alle esperienze e al confronto che parte dalla scuola. Sarebbe follia frequentare solo la nostra famiglia e solo i colleghi dei nostri genitori. Ad un certo punto ci ritroviamo a prescindere dal lavoro che facciamo, totalmente fuori dal mondo reale.

E allora, di che tipo può essere l’influenza dei nostri genitori? I nostri genitori possono incoraggiarci a fare delle scelte, a volte quest’incoraggiamento si trasforma in un vero e proprio obbligo. Mi immagino il figlio del notaio che non gliene frega niente di fare il notaio che che se decide di fare qualcos’altro si gioca l’affetto e la stima familiare.

Oppure addirittura potremmo essere più o meno ostacolati a fare le nostre scelte, che forse è anche peggio di essere obbligati a farne altre. Mi immagino un bambino che vuole fare il ballerino.

Nella maggior parte dei casi invece secondo me siamo assecondati. I nostri genitori ci lasciano liberi di fare le nostre scelte e ci assecondano. Il problema è che se da una parte ci viene detto che è giusto incoraggiare le inclinazioni dei propri figli affinché realizzino le loro inclinazioni e anche vero che incoraggiare non significa fottersene perché non sappiamo orientare e guidare i nostri figli affinché le scelte che stiamo assecondando non siano delle stronzate. Mi vengono in mente quei genitori che mi dicono: “di scuola non ne voleva manco a brodo”. Ovvio, aveva 12 anni. Manco io ne volevo a brodo e per me andare a scuola significa solo andare a fare bordello o occupare per giocare a poker. Però almeno avevo un piano. Vincere.

Molte persone non hanno un piano e per questo ad un certo punto si ritrovano con quello che capita.

In psicologia del lavoro, il rapporto che abbiamo con il nostro lavoro si chiama commitment. Ovvero la natura del legame che abbiamo o con l’azienda o con il nostro lavoro. Il modo con il quale siamo emotivamente coinvolti. Inutile raccontarci che più amiamo il nostro lavoro, più lo facciamo bene e più probabilmente guadagniamo. In questo caso specifico parliamo di commitment affettivo. Dentro mettiamo tutte le persone che fanno quello che fanno proprio perché lo vogliono fare.

Poi ci sono quelli che fanno quello che fanno perché non hanno alternative e quello che fanno è la cosa migliore che gli potesse capitare. In questo caso parliamo di coinvolgimento per continuità. Faccio quello che faccio perché lo facevo pure ieri. Non lo faccio perché voglio ma perché e quello che posso.

Alcune persone invece fanno quello che fanno perché DEVONO. In questo caso si parla di coinvolgimento morale. Dentro possiamo mettere tutte le persone che in qualche modo pensano che l’idea di cambiare o di lasciare il lavoro che hanno le farebbe sentire in colpa e che non sarebbe giusto. Ad esempio quelli che lavorano nella ditta di famiglia o quelli che vorrebbero dimettersi da un lavoro a tempo indeterminato.

Ti anticipo che fra poco comincerò una serie di interviste a persone che conosco e che mi hanno sempre stupido per le scelte che hanno fatto.

Tranquillo che non prendo in considerazione le persone che hanno un lavoro solo sulla carta e poi non gliene frega niente di quello che fanno. A tutti i livelli.